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LA QUARANTENA RACCONTATA DA UN’ANALISTA TRANSAZIONALE

Sono giorni duri per tutti noi: si ciondola sul divano divorando una serie dopo l’altra su Netflix, ci si inventa ogni attività possibile per intrattenere i figli, ci si preoccupa per qualcuno che non sta bene.

Quello che ci accomuna in questo momento è la condizione di isolamento prolungato a cui siamo costretti: siamo in casa da soli, magari con un amico a quattro zampe o con i nostri familiari, in un ricovero per anziani o in un letto d’ospedale. Oppure siamo in mezzo ad altre persone, in fabbrica o in ospedale, ma comunque isolati. Separati. Soli.

Quante volte ci siamo sentiti sopraffatti dagli impegni? Perché ora che abbiamo tutto il nostro tempo a disposizione siamo così insofferenti? Anche chi è a casa in modalità smart working, pur avendo molto da fare, non riesce ad essere produttivo come al solito. Puoi lavorare in pigiama, nel letto, puoi fare un pisolino in pausa pranzo: sembra fantastico, ma perchè non funziona?


Eric Berne (1910- 1970) propone un concetto che può servire per capire questa situazione: la fame. Il termine fame rimanda ad un istinto innato verso un nutrimento che è essenziale per la sopravvivenza dell’individuo. In questo caso ci si riferisce ad un nutrimento che si appaga nella relazione con l’altro e di cui abbiamo bisogno tanto quanto di una ciotola di riso. Berne identifica tre fami:

1. Fame di stimoli 2. Fame di riconoscimento

3. Fame di struttura

Il primo punto rimanda alla necessità di ricevere delle stimolazioni dal mondo esterno, dagli altri: questo attiva le nostre sinapsi e ci fa sentire vivi. Mentre l’altro ci guarda, ci riconosce restituendoci una parte di noi rispetto a come siamo o a cosa facciamo. In termini analitico transazionali si dice che ci fa una carezza sull’essere o sul fare. Le carezze possono essere positive o negative, in ogni caso ci servono per sapere chi siamo: un gran lavoratore o uno scansafatiche, una persona generosa o un accumulatore di ricchezze, un chiacchierone o un super timido. Queste carezze rispondono alla nostra fame di riconoscimento: abbiamo bisogno di sapere chi siamo e ci definiamo attraverso i riconoscimenti che riceviamo. La fame di struttura si riferisce al nostro bisogno innato di avere un’impalcatura della nostra vita che scandisca ritmi e tempi nella quotidianità.

In questo momento delle nostre vite siamo chiusi in casa, spesso soli, con un’infinità di tempo a disposizione. Ecco cosa accade: siamo AFFAMATI!


Come sopravvivere a questa dieta forzata?

Con degli alimenti ipocalorici, ma sufficientemente nutrienti. Uscendo dalla metafora, si sopravvive cercando di soddisfare come possibile le nostre fami di stimoli, riconoscimenti e struttura. Cominciare dalla struttura può essere più semplice. Rispettare gli orari dei pasti e i ritmi sonno-veglia è un ottimo inizio, così come crearsi delle piccole routine quotidiane che scandiscono le giornate: togliersi il pigiama al mattino, innaffiare le piante tutti i giorni, fare attività fisica in salotto seguendo qualche tutorial. I riconoscimenti possono essere cercati nelle relazioni con le persone che in questo momento sono lontane: gli aperitivi con gli amici su Skype o gli appuntamenti con la vicina sul balcone (ciascuno il proprio!) per fare ginnastica sono ottimi spunti. Gli stimoli li cerchiamo in un flash mob improvvisato sui balconi, ma anche in un libro che avevamo abbandonato sul comodino da qualche tempo o nelle sensazioni che scaturiscono durante una meditazione yoga.


Ci ricorderemo di questi giorni e di questa fame, ma ci ricorderemo anche del primo abbraccio al grido: “Liberi tutti!”. E avrà un sapore del tutto nuovo.



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